Lettera aperta di fine anno

Cara Collega, Caro Collega,

come stai? Sopravvissuto/a agli scrutini?
Dai che manca poco, un ultimo sforzo.

E a proposito di sforzi e di scrutini.

Sono sicura che c’è, lì da qualche parte. In mezzo all’elenco, o proprio all’inizio. Ha una bella fila di 8 e 9, 10 in condotta perché a lui/lei non puoi non darlo. Sei proprio contento dei suoi risultati, sei orgoglioso come se li avessi presi tu, quei voti, e hai ragione, un po’ è anche merito tuo, tra quelle materie c’è la tua e il risultato dipende anche dai tuoi sforzi come professore.
Lui/lei è un santo, una coccola, quello che ti fa svegliare e pensare “forse nemmeno oggi libero un’orda di ratti pestiferi in 4^G”. Lui ti segue, lui fa i compiti, lui le insufficienze non le prende nemmeno se è venuto a scuola con la febbre. Lui ti saluta, ti guarda adorante anche se gli stai spiegando quelle maledette palline su piani inclinati che nelle verifiche (tranne la sua) risaliranno con caparbietà mai vista qualsiasi piano comunque inclinato. Lui, magari, è pure capace di ringraziarti, di dirti che gli hai aperto un mondo e che all’università farà proprio il tuo corso di studi.

Poi c’è LUI (o LEI, che forse è ancora peggio).
Uh, LUI.
LUI è quello che ti strapperebbe gli schiaffi dalle mani, se non ti ricordassi che il MIUR ha preferito inserire la LIM come materiale didattico e non il lanciafiamme e/o la catapulta a fuoco che tu a gran voce hai implorato ogni santo PTOF, ma niente, #maiunagioia, come dicono i tuoi alunni.
LUI è quello per cui hai resuscitato ogni pantheon conosciuto o meno, dei ai quali l’ultimo sacrificio è stato celebrato tre millenni or sono, perché sai mai che si commuovano alla vista di un fedele tanto devoto, perché la mattina non te lo trovassi in classe.
LUI è rompiballe, è maleducato, è noioso. Non combina mai niente nemmeno per sbaglio e, peggio ancora, a volte appartiene pure alla categoria di quelli intelligenti ma che hanno 4,5 di media perché “cheppalle, oh, prof.”.

E io lo so.
Lo so che vorresti strozzarlo ogni santo giorno, che all’ennesimo impreparato ti chiedi cos’ha di sbagliato il mondo, la vita l’universo e tutto quanto e perché a Hogwarts il tuo curriculum è stato usato per far imparare Trasfigurazione a quelli del primo anno o per accendere il camino.
Lo so che LUI usa la testa solo per aprire le noci e poco più.

Però è lì.
Però è lì e ti devi chiedere se qualcuno l’ha mai guardato, quel figliolo. Se qualcuno gli ha mai chiesto “Cosa ti piace fare?” o “Cosa ne pensi di…?” e poi è rimasto ad ascoltare la risposta. Se qualcuno gli ha mai preso un libro in mano per leggergli una storia, se gli ha mai spiegato qualcosa in termini a lui comprensibili. Se qualcuno gli ha mai fatto vedere quanto siano belle le montagne e come si contano le stelle, quanto ritmo c’è nelle poesie e quanto gli scrittori di secoli fa ci assomigliano. Quanto fuoco c’era in chi ha combattuto guerre di liberazione, quanta magia nel moto dei pianeti e nelle piante che crescono, quanto stupore nel chiedersi da dove siamo venuti, quanta fatica nel darsi leggi.

Chiediti se qualcosa lo commuove, chiediti se qualcosa lo entusiasma, chiediti se c’è modo di farlo sentire importante cinque minuti nella sua vita, se puoi digli bravo almeno una volta.

Non puoi farlo da solo, perché ne hai altri 25 a cui badare. Allora datti tempo, turni, strategie, chiedi aiuto ai tuoi colleghi, ma fallo.

Poi ci torni, da quello bravo, ci torni perché anche tu hai diritto a stare con uno che ti segue senza dovergli fare uno schema ogni tre righe.
Ma guardalo, LUI. Gli basta poco, davvero. Gli basta che ci si renda conto che LUI c’è anche quando non fa casino, anche quando non è un problema, anche quando non prende 3.

Poi oh, magari lo bocci con la media del 3,5, chi dice niente.
Però ci hai provato, te lo sei tenuto accanto, non l’hai fatto andare via. E quando LUI ti prenderà 6, magari una volta nella sua scellerata carriera scolastica, tu guarderai quel 6, agli scrutini, e varrà mille volte di più della riga del coccolo.

Buona fine dell’anno, Collega.
Ci vediamo a Settembre, LUI sarà lì ad aspettarci al varco.

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30 giugno

Riesumo il blog (sono tipo TRE ANNI che non scrivo più quindi preparatevi per un post pallosissimo XD) solo perché è una giornata un po’ speciale.

I minuti sull’orologio sgocciolano portandosi via il mio contratto da prof. A mezzanotte scadrà il mio mandato. La mia validità. Il mio incarico. Sono tipo un barattolo di yogurt, toh. La prof. Agne è prof. fino al 30 di giugno (poi auguri per scovare un’altra botta di fortuna come quest’anno -oh, Renzino sarà quello che è ma intanto io ho avuto 6 cicciosi mesi di scuola tutti per me).

Tra l’altro la faccenda è questa. Due anni fa ho non-fatto il Tfa (il tirocinio abilitante, nda) basically perché sono una polla e non avevo più voglia di studiare. E quindi zitta e buona mi sono beccata un 2015 che non raccomando a nessuno (oh, niente tragedie, per carità, anzi avercene, ma insomma, lavorativamente parlando… vabbè oh, me la sono cercata).

POI la luce in fondo al tunnel. Una chiamata vicino a casa (chiamata che è durata 2 minuti, poi è stata seguita da un’altra chiamata modello “ops, nevermind, c’è Tizio prima di lei in graduatoria” e Agne è stata rimessa al suo posto).
Ranteggiando a tutto spiano, mi attivo per cercare altro quando mi chiamano da Menaggio.
“La chiamiamo per il posto in organico potenziato… è ancora disponibile?”
“AVOJA, CI’, son già lì, tieni in caldo il contratto.”
(No, non ho risposto così. Mi sono limitata a strillarlo interiormente. Al telefono ho risposto con molto più aplomb. Poi ho chiuso la telefonata e sono andata su Google a cercare “What’s Menaggio” -cit.)
(No, really, i laghee all’ascolto mi scusino, ma a gennaio avevo un’idea della geografia del lago di Como che faceva spavento. D’altronde, io sono quella che pensava che Genova non fosse così a sud del Po. Ma sto divagando.)
(Ao’, che volete, la mia classe di insegnamento è storia e filosofia, geografia non è compresa.)

Insomma. Menaggio.
Un incrocio di probabilità abbastanza irreale, se uno ci sta a pensare. Ma era lì, ad aspettarmi.

Poi oh, capace che uno pensi che mi monti la testa. “Uuuuh, la prof. Agne, chessarammai, capaci tutti.”
Che non è vero, come non è vero che sono stata la meglio prof del lago. Ho desiderato follemente di picchiare uno dei geometri con il cellulare che stava usando incurante della sottoscritta, per dire. Ho disturbato le aule del pianoterra con i miei urlacci rivolti a classe insubordinate. Non avevo la benché minima idea di cosa volesse dire insegnare.

Non ne ho avuto idea fino a che non mi hanno lanciato in un’aula dicendo “Manca il collega di italiano, alè op, intrattienile”.
E mi sono ritrovata di fronte una ventina di fanciulline di 16 anni. Del turistico. Dopo le vacanze di Natale. Like, che cosa vi faccio fare ora?! *segue panico diffuso della novella prof. tipo gazzella in mezzo a un branco di leonesse annoiate*

E lì, il provvidenziale Potere Della Botta Di C***.
Le fanciulle dovevano fare Dante.
Divina Commedia.
Inferno.

Capirai la BdC, direte voi.
E INVECE.
Il karma (che peraltro non mancherà di irridermi parecchie volte nei giorni successivi) mi benedisse con il canto X. Farinata degli Uberti. Il MIO Manente di Iacopo.
Ho attaccato a parlare infoiata come una preadolescente inglese davanti agli One Direction.
Morale.
“Oh prof., Dante spiegato così quasi quasi mi piace.”

E da lì ho capito il trucco. Ho capito che c’è sempre una via di mezzo per spiegare le cose a ‘sti ragazzi, anche se sono geometri al quarto anno e di Leopardi buon’anima sinceramente non ci interessa tantissimo. Forse basta chiamarlo Leo e spiegargli i brani facendo esempi sulle Ducati. O dire alle ragazze di cui sopra che il Petrarca di Solo e pensoso i più deserti campi è una di noi dopo una cotta finita male, chiusa in camera con il barattolo di Nutella.
(Giuro, l’ho fatto davvero.)
Forse basta dire loro che sì, ragazzi, i verbi da declinare sono proprio una palla e in cantiere la divisione del testo narrativo non la chiederanno mai, ma proviamo a vedere se c’è modo di divertirsi, su ‘ste cose. O se c’è un motivo sulla fatica di imparare cose difficili, magari a memoria.

E così sono sopravvissuta ai miei sei mesi, tra alti e bassi, tra “I MIEI PULCINI MA BAWWW LI ADORO” e tra “…ma dici che se li lancio dalla finestra e dietro gli lancio anche lo smartphone sono perseguibile per legge?”, tra i bidelli con cui ho fatto amicizia e i colleghi che alla fine della giornata/collegio/incontro/uscita hanno sempre avuto un sorriso apposta per te.

E nulla. È che magari ho anche fatto un sacco di pasticci, ma ci ho creduto davvero. E mi è piaciuto un sacco.
Piaciuto perché è bello quando puoi raccontare qualcosa che ti piace in modo da farlo piacere anche a loro. Perché è bello quando ti scrivono “fossero tutti come lei” o “grazie per tutto l’aiuto che ci ha dato”. Perché è bello quando ti riconoscono per strada e ti salutano dall’altra parte della strada, “SALVE PROF!”.
Niente, tutto qui. È che ripenso a tutte le arrabbiature e a tutte le fatiche e alla nostalgia che ti prende quando sai che hai poco più di un’ora per farti legittimamente chiamare prof., ma poi ti ricordi di quella volta che hai detto a uno dei tuoi alunni grandi di quinta “Guarda Dario, se poi hai bisogno, la mia mail ce l’hai, mi scrivi, va bene? Ché io di fare la prof. col cronometro da cucina, DING!, tempo scaduto, non è più la mia ora di lezione, non ho proprio voglia.

E allora al diavolo il 30 di giugno. La prof. Agne non è uno yogurt, apparentemente. Ed è sempre l’Agne che x anni fa (no, davvero, troppi) aveva scritto, sempre qui, che “con la tua laurea…”

Hai in mano i tuoi futuri studenti, che ti guarderanno e dovranno trovare in te un motivo in più per osare sapere. Non saranno numeri e nomi di carta, saranno mani da stringere, occhi a cui sorridere, domande a cui rispondere, non vasi da riempire ma fuochi da accendere (e alimentare).

E nulla, ho scritto 1000 e passa parole. Non so se ci sia ancora qualcuno vivo.
Se c’è, grazie dell’ascolto. E a presto su questi schermi, spero.
Come mi ha detto una mia collega facendomi sciogliere, “questo è davvero il tuo lavoro“. E allora impegnamoci.

La prof. Agne

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Not all those who wander are lost

È tempo. Soprattutto perché è il 29 novembre, il che vuol dire che sono in territorio anglosassone da ben due mesi (ehi, sono sempre la solita movieverse!Sam).
In tutto ciò, signori, l’Agne è diventata grande e salva la Cina.
Dubitavo seriamente di venire a capo di questi mesi, vi dirò, ho sempre avuto questa ansia non risolta per i viaggi, lunghi o corti che fossero, e per la permanenza lontano da casa. E invece.

E invece ho aperto un conto in banca inglese, e invece ho lavorato in un negozio, e invece ho imparato a guidare a sinistra, e invece ho la tessera di una biblioteca del remoto Lincolnshire, e invece so rispondere al telefono e capire cosa mi vien detto (circa), e invece ho preso l’abitudine di salutare tutti con questo “hia” che ho impiegato due settimane a capire che fosse un saluto, e invece non ho più crisi isteriche (quasi) quando devo destreggiarmi tra miles, pounds e amenità varie (really, WHY?).
Capisco che per la maggior parte di voi non sono poi ste grandi imprese, MA per una che in Vita Reale si era quasi rassegnata allo stato di niubba perennis (la classe è sempre Zitella Coi Gatti, quella non cambia nemmeno oltremanica) capite bene che…

E insomma, tra poco più di una settimana si fa retromarcia e si torna nel (Bel)paese.
Per cui grazie, Lincolnshire, nonostante tu sia il posto più immerso nel Nulla (sì, quello della Storia infinita) che la mente umana possa mai immaginare. Grazie, piccola Spalding, con il tuo fiume, i tuoi negozietti carini e la tua popolazione dall’accento improponibile.
Grazie, coro della parrocchia e tizi del charity shop, per avermi fatto sentire a casa a miglia di distanza.
E grazie a te, Agne Seria, ovvero la mia seconda personalità, quella che dà buoni consigli, che non si fa pare, che affronta i problemi invece di scappare, per aver soffocato Agne Tonta nel sonno.

E grazie alla manica di balenghi che ci governa e a chi li ha votati, perché se non ci fosse stata quel terrificante bad-ending alla ultime elezioni io manco per idea sarei emigrata.

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Aggiornamenti sociali

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Ci siamo.
Partire partirò partir bisogna.
E sinceramente ho una fifa blu. Un po’ come movieverse!Sam quando si blocca in mezzo ai campi di grano e dice “Se faccio un altro passo sarò lontano da casa come non lo sono mai stato.”
Bien, meno 15 giorni. Il 27 farò le valigie e me ne andrò da Brother, lassù a Spalding, per un paio di mesi. Poi torno, a dicembre, e poi di nuovo via, stavolta vicino a Londra, nell’ameno suburb di Gerrards Cross (che tutte le volte che leggo questo nome penso a Steven e al Liverpool e rido).

Che poi, non sono per niente legittimata ad avere fifa. I mean, sto andando da mio fratello e andrò poi nel “most desirable piace to live in England”, a quanto pare, stando alle parole della saggia Wiki. E mi vengono in mente almeno quindicimila persone che vorrebbero essere al mio posto.
Still, niente. Ansia.
Che poi x2, uno a 25 anni dovrebbe prendere e andarci di corsa, fuori di casa.

[Facciamo una parentesi sui 25 anni, plz *risata isterica* Un quarto di secolo. No, sinceramente, non sono pronta. “Chiamami ancora adulto e ti scanno come un maiale”, cit.]

Sta di fatto che mi sono fatta forza (o violenza) e mi ci sono scaraventata da sola, fuori di casa. Op, Vita Vera here we come. E, vedi parentesi quadra, non sono affatto pronta. Ma, d’altra parte, o ora o mai più. Se non ora, quando.

[Seconda parentesi quadra: il Se non ora quando sta diventando la frase must della mia vita, ultimamente. Che, se lo chiedete a me, è un ottimo modo per decidersi su un sacco di cose. Anche perché quote gemella è “O ora o mai più”, appunto. Il che ha un sapore vagamente apocalittico, ma per le persone culopese, pigre ed eternamente terrorizzate dal mondo come me ha dell’utile.]
[La seconda frase è Barbuto WTF; la capirà solo Andre, ma dovevo quotarla per forza.]

Per dimostrare che non sono una persona del tutto triste, ho fatto un elenco di cose positive, e precisamente:
1. Abbandonerò per qualche tempo questo Paese di ciulandari. Aha, mi disinteresserò dei guai patri per un po’. 8 mesi da fedele suddita della Regina (pro nomine e non de facto. I don’t caaaare.), la bellezza. Niente più Nano Orrido, niente più Corte dei Balenghi, niente di niente. Non mi lamenterò più per 8 mesi *_* (anche perché, come dice Internazionale, il diritto di lamentarsi ce l’ha solo chi resta e non chi va.)
2. Me ne vado. Il che prevede un viaggio. E dato che la Francigena ha categoricamente cambiato il mio modo di vedere le cose, i viaggi e i cammini metaforici o meno, nutro la ragionevole speranza che questi mesi mi facciano bene. L’ottica del cammino è tutto quello che mi salva, ultimamente, e non c’è ragione per credere che non mi salvi ancora.
3. Avrò tempo. Un sacco di tempo. Per cui, in Inghilterra mi seguiranno violino, matita e colori e La Divina Commedia. E svariati libri da leggere. Un sacco di progetti che ho sempre dovuto accantonare per motivi di tempo. (Dopodiché Nipoti prima e Pargoli dopo mi fregheranno tutto il tempo che pensavo di avere, ma lasciatemi nelle mie chimere ancora per un po’.)
4. Continuo a ripetermi quello che diceva il mio adorato Renzo Piano: “I giovani devono andarsene. Per conoscere, studiare, viaggiare. Poi devono tornare.” Per cui torno, state sereni. L’emigrante non è mai stata la mia prima aspirazione.
5. Last but not least, ho un What if che mi ronza ancora intorno, un forse!nuovosogno, una forse!nuovastoria. E l’Inghilterra è l’occasione per mettere un po’ d’ordine anche in questo pensiero. Chissà. *incrocia le dita e tutto l’incrociabile*

Au revoir, dunque.
E, per essere ancora un po’ più apocalittici, ecco qui.

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Via Francigena (Siena, 05/08 – Roma, 16/08)

Via Francigena (Siena-Roma)

Cammino di 12 tappe, 12 parole, 270 km e una meta.

Prima viene Siena, la partenza.
Lo zaino da preparare, le mappe da confrontare. Qualche sorriso un po’ emozionato e un po’ nervoso, una meta negli occhi e nel cuore. La prima sveglia alle cinque, il sole che sorge e tanti chilometri davanti ai piedi. Pronti, via.

La prima tappa è Ponte d’Arbia, l‘incontro.
Arriviamo alla prima tappa alla sera, dopo aver scoperto che i chilometraggi millantati dalla guida erano fin troppo ottimisti. Entriamo in ostello, posiamo lo zaino e ci lasciamo cadere sul letto, disinteressate a qualsiasi cosa che non sia cibo e riposo.
Poi la sorpresa: incontriamo un gruppo di altri pellegrini. Matteo, Antonio, Jan, Leidy, Alberto: nomi nuovi che presto diventano familiari, nomi che si uniranno ad altri nomi una settimana dopo. Nuovi sorrisi, nuove storie. Un cammino da condividere.

La seconda è San Quirico, il perdersi.
Perché seguire le mappe se la strada è indicata così bene? Fu così che la strada divenne sterrato, lo sterrato tratturo, il tratturo sterpaglia, la sterpaglia rovi e i rovi un campo di girasoli. Dopo ore e chilometri decidiamo che è caso di tornare al punto di partenza e di cercare una strada nuova.
Qualcuno un giorno mi disse che il modo migliore di conoscere un luogo è scegliere una strada a caso senza preoccuparsi troppo di dove porta: è la verità. Lo splendore dei dintorni ci fa dimenticare il disappunto. Perdersi, e poi ritrovarsi: anche questo è cammino.

La terza è Radicofani, la salita.
Radicofani spicca con la sua rocca ad un’altezza di 800 metri. I 300 metri di dislivello che ti separano dalla meta sembrano non finire mai e i sentieri che dovrebbero risparmiarti un po’ di asfalto spariscono tra campi e rocce dopo venti metri.
Nello sconcerto di una salita che non si sa da che parte prendere, la signora Bruna, proprietaria di un podere isolato ti arriva in soccorso, ti indica la strada e ti chiede se hai bisogno di qualcosa: all’improvviso, la via non ti sembra più così brutta e la rocca, finalmente, si avvicina.

La quarta è Acquapendente, il confine.
In questa tappa raggiungiamo il confine tra Toscana e Lazio.
Prima di partire ci avevano detto “Guardate, il primo giorno camminate, il secondo già di meno, il terzo vi distrugge, dal quarto andate”: è la verità. La quarta tappa è anche il confine tra “non ce la faremo mai” e il “Roma arriviamo!”. È il rendersi conto che nessun ostacolo (nemmeno 5 orrendi chilometri sulla trafficatissima Cassia moderna) può mai separarti dalla metà che porti nel cuore.

La quinta è Bolsena, l’acqua.
Bolsena sorge sulle rive di un lago, la cui vista ci accompagna lungo tutto il cammino. Il panorama si apre, le colline lasciano posto alle valli e al piano.
A casa l’acqua non è un problema, la procuri facilmente ovunque vai; il cammino ce ne insegna il peso e il valore, soprattutto nelle stradine assolate in mezzo ai campi.
L’ostello in mezzo al bosco, pur con gli inaspettati chilometri per raggiungerlo, ci appare come una benedizione.

La sesta è Montefiascone, il vino.
Montefiascone è famosa per il suo vino, e il vino è il simbolo della festa. Arriviamo nella città durante la sua sagra ed è l’occasione di stare insieme, di condividere tavola, racconti e risate. Il cammino ti insegna anche la gioia, che spesso arriva inaspettata quando la fatica vorrebbe appannare l’entusiasmo del cammino.

La settima è Viterbo, la condivisione.
A Viterbo siamo ospiti dei Cappuccini.
Nella stanza per i pellegrini troviamo cinque ciclisti diretti anche loro a Roma. Con i ciclisti è più strano rapportarsi: se incontri dei pellegrini a piedi è facile ritrovarsi a fine tappa, ma chi viaggia in bicicletta ti fa compagnia per al massimo una sera.
Non importa: la cena, i racconti, i sorrisi sono condivisi nella convivialità più bella e spontanea, come se ci si conoscesse da una vita. L’augurio di buon cammino, datoci il giorno dopo, si arricchisce di volti e storie.

L’ottava è Vetralla, la fiducia.
A Vetralla arrivo in treno, complice la difficoltà della tappa e la paura di rimanere senza fiato in mezzo al nulla. Le mie due compagne mi aspettano nella piazza principale del paese e io conto di arrivarci senza troppi problemi; peccato che la stazione di Vetralla fosse a cinque chilometri dal paese.
Un signore autoctono, valutato il mio grado di disperazione, si offre di darmi un passaggio. Mentre raggiungiamo la cittadina, valuto come “mai mettere limiti alla Provvidenza” si stia rivelando quanto mai attuale.

La nona è Sutri, il bosco.
Alla nona tappa si comincia a sentire tutta la stanchezza del cammino. Manca poco a Roma, ma la strada sembra allungarsi invece di diminuire.
Verso Sutri la tappa si dipana tra boschi e noccioleti: l’ombra e il vento fresco sono un sussurro di conforto.

La decima è Campagnano di Roma, la fatica.
La strada per Campagnano è per un terzo ancora Cassia. Autostrada a quattro corsie, tir e auto da evitare ad ogni metro e il sole che batte sull’asfalto: mentre arranchiamo verso l’oratorio che ci accoglierà quella sera la tappa viene categoricamente bollata come La peggiore tra le tappe.
Eppure, penso quella sera, camminando tra le viuzze del centro, anche questo fa il cammino. Come diceva Platone, Tutte le cose grandi sono rischiose e il bello, come si dice, è veramente difficile.

L’undicesima è La Storta, l’attesa.
La Storta è un percorso piuttosto piacevole nel verde del Parco Nazionale di Veio. Il cammino è ormai alla fine e l’attesa di Roma sta per terminare. In un momento di follia, pensiamo che potremmo addirittura arrivare in città in serata, ma poi riconsideriamo l’idea a favore di una mezza giornata di riposo alle porte della Città Eterna.
Il cammino è anche, e soprattutto, attesa: è guardare, incontrare, vivere per raccontarlo. Il cammino è attesa paziente di una meta che si costruisce nei passi di ogni giorno.

La dodicesima è Roma, l’arrivo.
Dopo i soliti chilometri di tremendo asfalto trafficato, la salita a Monte Mario (Mons Gaudi, il Monte della Gioia per i pellegrini diretti a Roma) ci apre la vista della città davanti agli occhi.
Qualche passo più in là ci aspetta San Pietro: il percorso è terminato.
Sei così concentrato sulla meta che ti dimentichi del viaggio, avevo letto in un racconto prima di partire; in effetti, l’arrivo a Roma ti riempie di una sconvolgente, insospettabile nostalgia. Mal di cammino, lo chiamano i pellegrini: quella voglia di non smettere mai, di procedere oltre. Di sognare un’altra meta, un’altra strada, nuovi incontri e nuovi passi.
All’ospitale ci si saluta con “Buon cammino!”: non c’è una fine, c’è solo un altro pezzo di strada.
Ultreya y suseya, il grido adottato dal cammino di Santiago: più avanti e più in alto! In alto i cuori, lo sguardo e la gioia di un nuovo percorso.

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Messer lo frate Sole

Ecco spiegato il motivo del ritardo dopo la fumata bianca...

Ecco spiegato il motivo del ritardo dopo la fumata bianca…

«Possa Dio perdonarvi per quello che avete fatto!»
[Papa Francesco, durante la cena coi cardinali, 13 marzo 2013.]

Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!
– NondireAngelusnondireAngelusnondireAngelus-
Eminentissimum ac reverendissimum dominum…
– NondireAngelusnondireAngelusnondireAngelus… E soprattutto qualcuno stia dietro a quel pover’uomo che tra un minuto mi sviene.
Dominum Georgium Marium…
– …….chi?
Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Bergoglio!
– …………..?
Qui sibi nomen imposuit… FRANCISCUM!

A quel punto sono quasi caduta dalla sedia.
Un’ora prima, all’annuncio della fumata bianca, avevo commentato su fb qualcosa come “Io tifo per O’ Malley. Francesco I, sai che figata?”. Ma da qui ad aspettarmi che davvero ci sarebbe stato un papa col nome di Santo Francesco, mai nella vita.

Di papa Francesco se ne sono già dette di ogni (e a tal proposito, se fossi una persona santa riderei della gente che sta dicendo ogni genere di scempiaggini sul nuovo pontefice, tutte rigorosamente senza fonte; io non sono una persona santa, mi farei volentieri venire la bile, ma mi limiterò a linkare questo articolo, che dice tutto).

Io non voglio entrare nel merito delle sterili polemiche né nulla. Vorrei solo far notare un paio di cose di questo nuovo papa.

1. Quando si è affacciato da San Pietro, non portava né mantella rossa né croce d’oro e appena finita la benedizione si è tolto la stola;
2. quando è andato a cena con i cardinali, è salito sul pullman e non sull’auto privata;
3. quando è stato eletto è corso dai cardinali costretti sulla sedia a rotelle;
4. ha pagato il conto della sua stanza dove aveva alloggiato per il conclave;
5. si è chiamato Francesco, come quel Francesco, quel pazzoide di Assisi che ha ribaltato un mondo su un paio di sandali;
6. non si è mai riferito a se stesso come “pontefice” o “papa”, ma sempre e solo come “vescovo”.

Io aspettavo da tempo un papa del genere. Umile, essenziale, povero, concreto, deciso: Francesco.
Non so se sarò smentita o se il nuovo pontefice continuerà ad essere come in queste 24h: di certo, le premesse sono le migliori.

Una cosa más.
Mi piace ricordare tre cose, dei primi minuti di papa Francesco.
La prima: lo sguardo lucido e commosso di papà durante il saluto e tutti i successivi servizi del tiggì sul papa. È come se avesse aspettato tanti anni il ritorno del Papa Buono: ed eccolo di nuovo.
La seconda: mi Val, la mia Vale, compagna educatrice, che ci è corsa incontro ieri sera esultante, e il successivo abbraccio. L’entusiasmo, la speranza, la francescana letizia.
La terza: il Padre Nostro recitato insieme. È la prima preghiera, l’invocazione immediata e spontanea che chiunque l’abbia imparata da bambino si ricorda. È la preghiera dell’oratorio, la preghiera dei campi di lavoro, di ogni incontro, di ogni momento insieme. È la preghiera dei fratelli.

Vai avanti così, Francesco. Ripara la mia Casa che è in rovina.
Buon cammino, Messer lo frate Sole.

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Di cavalier serventi

[Io taggavo il miei articoli, eh. C’era un tempo che Berta filava e io taggavo i miei articoli. Poi mi sono un po’ persa. Però questo lo taggo a beneplacito della Juls, #stupidimaschi è suo copyright.]

Dunque.
Partiamo dalla gente scema, così ci togliamo il pensiero.

L’altro giorno scendevo dalla simpatica discesa che dalla scuola dove ogni santa mattina bado ai pargoli della prescuola porta alla Rotonda Del Male.

Codesta rotonda, se presa dall’entrata di cui sopra, offre il beneplacito di:
– una provinciale che di colpo si incanala nel paesello, con gran gioia di chi crede che la statale continui senza finire nella steppa, per dire, e
– una fila di auto che si tuffa nella suddetta rotonda congestionando il traffico E
– due strade su cui dare precedenza.

Quindi, se devi dare la precedenza, che fai? Dai la precedenza, ovviamente. Non è che ci sia molto da fare. Stai buono, aspetti, poi ti immetti quando non hai più precedenze da dare.
Ora, martedì mi metto buona buona ad aspettare.
Passano qualcosa come 20 secondi (giuro) e la gente dietro di me comincia a strombazzare. E pazienza, c’è gente scema, che ci vuoi fare… Certo che se la densità del traffico è 5 macchine al secondo, capisci bene, amico mio, che io più di attendere il mio turno non posso fare.

In tutto ciò arriva lui, il Cavalier Servente.
Visto il cavalierato e il Q.I., son pronta a giurare si chiamasse Silvio.
Ma tant’è. Che fa, il prode C.S.?
Mi supera, si butta nella rotonda a caso, passa un secondo eterno in cui io prego tutti i santi che il tizio che stava per arrivare nella rotonda freni, Tizio grazie a Dio e a tutti i cori celesti capisce la puttanata geniale manovra che C.S. sta per fare e frena.
C.S. si volta verso di me e mi fa cenno di andare.

Ora.

Caro C.S.. Amico mio.
Sono commossa dal tuo buon cuore, ma:
1. Vedi, ho la patente. Ho un’auto in buone condizioni, ho ancora tutti i punti. Ciò ti dovrebbe far ponderare che so guidare almeno decentemente.
2. Vedi, stanno arrivano 5 macchine al secondo e oh, c’è il segno di precedenza. Ti ricordi? Vuol dire che devi fermarti e aspettare. Non fare coglionate manovre azzardate come quella che hai fatto, richiando la vita tu, un infarto io e una fiancata rifatta Tizio.
3. Vedi, se mi fermo, evidentemente un motivo C’È. Non è che mi diverto, io, a star ferma alle rotonde.
4. Che problemi hai?! No, really? Quei trenta secondi ti erano proprio necessari? Perdevi il lavoro, il gas era stato dimenticato aperto, ti moriva il gatto? La risposta è no, ciccio. Quindi stai dietro, buono e aspetta.

Tutto ciò per dire: se proprio dovete fare i cavalieri, oh uomini, tenetemi la porta aperta, aiutatemi a portare pesi, cedetemi il passo, magari (non alle rotonde, eh.), ma NON fate i Rambo. Che tanto non attacca.

Punto secondo, Il Tizio.
Non il poveretto di prima, Il Tizio con la I, la T e altre svariate cose maiuscole.
Insomma, il giovanotto che io e la mia migliore amica abbiamo incontrato a Milano settimana scorsa.
Intanto non era umano, IMHO. Aveva qualche chiara discendenza elfica. Più prosaicamente, era un Figo Da Paura (con le maiuscole anche qui).
C’è una semplice strategia per convincervi che Tizio era effettivamente degno di attenzione nel raggio di diecimila miglia: io e M.A., note per non essere MAI e poi MAI d’accordo sul grado di piacevolezza estetica di chicchessia, ci siamo interrotte nel nostro cicalare, fissando con sguardo da triglia Il Tizio, riprendendo a respirare più o meno quando I.T. è giunto dalla parte opposta di Milano.
Tutto ciò per dire ARGH.
Perché, se l’è magra, Il Tizio era:
– sposato;
– tenacemente fidanzato;
– gay;
– squilibrato mentalmente;
– una combo dei succitati.
Li ho passati tutti, continuo a passarti tutti, quindi non vedo perché con I.T. dovrebbe essere diverso.

Ma se lo fosse stato? Diverso, dico.
Se lo fosse stato, ciccia comunque. Io ho dei seri problemi a relazionarmi con la gente a posto. O sei un pazzo o non riesco ad attirare la tua attenzione, it is known. Oppure, certo, sei una persona splendida, ma né io né tu siamo intenzionati a convolare a giuste nozze (o una cosa qualsiasi che rientri nel corollario, ecco.)
Anche perché, uno cosa fa?
Atterra Il Tizio e se lo porta dietro, stile vignetta preistorica?
Improvvisa un malore e gli sviene tra le braccia (cosa realmente consigliata da Madre e peraltro dal buon esito, nel documentato 80% dei casi. Il punto è il tempismo -e il fatto che, con la jella primordiale che mi ammanta, se avessi fatto finta di essere svenuta, I.T. non si sarebbe accorto di nulla e mi avrebbe lasciato alle amorose cure di una sessantenne milanese)?
Ferma Il Tizio e gli dice “Ehi, sei carino!”, salvo poi far dubitare lui e mezza Milano della tua sanità mentale?

Non so, suggerite.
O trovatemi un marito.
O diffondete questo articolo nella beata speranza che Il Tizio si ricordi di me.

[Il Tizio, se tu mai leggessi questo articolo: eri bello come Renly Baratheon, avevi pure gli occhi verdi, credo, e ti aggiravi nei pressi di Cordusio, diretto verso Duomo, avvolto in un cappotto marrone.]

P.S.: a proposito di uomini fascinosi: auguri, Ale, sempre che in Australia tu abbia già compiuto gli anni! *coccola Alex disperso oltreoceano assieme alla Juve tutta*

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Non omnis moriar

Ci sono persone che sono fari e scelgono, nell’umiltà, di essere fiaccole.
Ci sono persone che sostengono, accompagnano, guidano, suggeriscono. Stanno accanto.
Ci sono persone che sono maestri.
Ci sono persone che sorridono e non si innalzano nella superbia. Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato.
Ci sono persone che la vita ti dona per farti un regalo.
Ci sono persone che lasciano segni e parole e un’intera storia d’Amore alle spalle.

Tu eri una di queste persone, Cardinale.
Ci mancherai.
Risposa in pace.

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Considerazioni da post-campo.

Castelvetrano, 2-9 agosto 2012.

Ero appena tornata a casa.
Stavo mettendomi in pigiama e intanto pensavo a cosa avrei potuto scrivere sulla settimana di campo, quando mi è caduto l’occhio sulla mia gamba destra, martoriata da ogni genere di graffio.
E finalmente ho l’illuminazione che mi serviva.

Questo campo è il campo dei segni.

I segni sono quelli lasciati dai rami e dai rovi. Nell’oliveto confiscato alla mafia ci sono alberi bruciati dalla rabbia cieca di chi pensa di vendicarsi e di spaventare; ma ci sono mani pazienti che tagliano, trasportano, risistemano.
Ogni metro c’è un sorriso, c’è Leonardo che manovra la motosega e dirige i lavori, c’è Piero con il furgone, Francesco che fa foto e filmati, c’è un ramo verde e un’oliva che fa capolino tra i rami. C’è rinascita e c’è una speranza.

I segni sono testimonianze. Sono racconti di vita che resiste e combatte. Sono volti e sono mani da stringere. Sono persone che hanno avuto paura e hanno scelto il coraggio. Sono storie da segnarsi e da ripetere. C’è tanto dolore e sconforto, ma anche tanta luce. C’è chi ti dice “è possibile.”

I segni sono le linee tracciate tra di noi. Tu ascolti, guardi e dici grazie e c’è chi dice grazie a te, che ti chiedi “perché, cos’ho fatto?”; poi ci sono quegli sguardi che ti fanno capire che se se si sta insieme – e Libera ne è testimone glorioso – anche l’onnipotente e misteriosa mafia si può sconfiggere. E ti senti al posto giusto, “dalla parte giusta della vita.”

I segni sono quelli che si usano per formare parole e nomi. I nomi delle imprese che non pagano il pizzo, i nomi delle persone che incontri, delle vie in cui passi, delle città in cui entri. La Sicilia è una terra promessa, che tra sole e mare ti indica una strada, quella verso la libertà. “Io ora posso tenere la testa alta e andare dove voglio”: se l’antimafia è una parola che all’inizio fa paura ora è un patto da stringere, un progetto da portare avanti; è quello per cui hai lottato e per cui “ora posso guardare mia figlia negli occhi ed essere fiero delle scelte che ho fatto, perché le ho fatte per lei.”

I segni sono quelli dati. I segni sono esempi. Quelli che abbiamo trovato, quelli che abbiamo dato. La prova che un altro mondo è possibile.

I segni sono linee di un disegno, che altri, assieme e dopo di noi, continueranno e arricchiranno di racconti e particolari.
I segni sono quelli che ci sono rimasti nell’anima e negli occhi. I segni sono sogni realizzati.

 

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Di pigrizia e di altri affari

[Disclaimer: questo post è dedicato a quell’esserino adorabile della Juls.]

Dunque. Prima di iniziare dalle cose serie (ah-ah), una cosa: al mio blog sono arrivati dall’Armenia. Ar-me-nia. Why? Fuori il nome di chi mi segue dall’Armenia.

Poi.

1. Uhm, sono una persona orribile e non aggiorno il blog da secoli. Capirai. Credo che mi seguano solo la Utti e la succitata J. Ma tant’è. Uno scrive per se stesso, la gloria verrà poi. Parlino pure male di me purché parlino, una rondine non fa primavera…
*il daimon socratico appollatiato sulla spalla di Agne la percuote violentemente con un tirso*

2. Sono pure un essere vergognoso. Io dovrei – dovrei. Devo. – studiare per la tesi. Caro-Relatore -Che-Legge-Il-Mio-Blog, sappia che sto almeno leggendo il testo per l’Ultimo Esame (verrà. È un’entità metafisica -come la combinazione di 0200+alt che ho appena digitato per la prima volta *-*- ma prima o poi la conquisterò. *musichetta epica* *il daimon di cui sopra chiede una nuova occupazione*)

3.  Ho appena trovato questa foto su fb.
Che mi ha ricordato sempre la J. (sembro un po’ una stalker, nevvero?) e mi ha amareggiato assai.
*zitella acida mode on*
È che la gente è stupida. E maleducata. Non so, quanto ci vuole a dire grazie e prego? Non sono solo i british ones che devono farlo, sapete? Vabbè.

4. Però c’è del bello, in questo triste mondo. Giovedì parto per un campo con Libera e rischiavo di non partire. Perché c’era tantissima richiesta. Capite? Cioè, ci sono ragazzi che fanno le loro ferie sotto il sole cocente a estirpare erbacce. È meraviglioso. La bellezza salverà il mondo, diceva.
(Mi è venuto il citazionismo acuto. Guaritemi. >.>)

5. In tutto ciò, inizierò a Leggere A Song of Ice and Fire e non avrò più una vita.

Yup.

E questo è tutto, mi pare (cit.).
In realtà no, ci sono ventordici cose che non vi ho detto, ma ormai…
Non scapperò mai più per così tanto tempo.
I promise.
*mette manina sul cuore*
*il daimon si esibisce in un facepalm piuttosto convincente*

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